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La sfera armillare

Le sfere armillari erano di due tipi diversi, alcune destinate all’osservazione e alle misure e altre concepite per scopi dimostrativi e didattici. Sfere del primo tipo venivano già utilizzate dagli astronomi greci e Tolomeo ne offre ad esempio una descrizione nel suo famoso Almagesto (II secolo d.C.). In quanto alle sfere armillari da dimostrazione, esse costituivano modelli in tre dimensioni dell’universo tolemaico. La terra era posta al centro, immobile, e intorno a lei un sistema di diversi anelli illustrava la struttura geometrica dell’universo, con l’equatore celeste, i tropici e i cerchi polari artici. Un altro anello rappresentava l’eclittica, cioè la traiettoria apparente annuale del sole intorno alla terra. Le primissime sfere armillari erano semplicemente fissate ad una base ed erano statiche. Furono poi montate su di un anello, il cosiddetto anello meridiano, il che le rendeva mobili e libere di ruotare su loro stesse. L’inclinazione era regolabile seconda la latitudine del luogo considerato, e un altro anello, orizzontale, rappresentava l’orizzonte dell’osservatore. Poteva così venire simulato il moto celeste diurno visto dall’osservatore.

Per quanto riguarda l’origine delle sfere armillari da dimostrazione, è noto che esisteva un “globo celeste con anelli”, proposto da Geminus nel I secolo a.C., ma non sembra che questo sia stato poi sviluppato fino ad una vera e propria sfera armillare. Ad oggi si sa solamente che in Europa le sfere armillari da dimostrazione apparvero nel corso del Medioevo e se ne trovano ad esempio illustrazioni in varie edizioni del famoso trattato di astronomia di Johannes de Sacrobosco, Sphaera mundi, scritto nel XIII secolo. Le rappresentazioni medievali di sfere armillari sono comunque rare e non esistono esemplari sopravvissuti di sfere anteriori al XV secolo. Risulta perciò difficile valutare l’effettiva diffusione di questi strumenti durante il Medioevo.

Sfera armillare al museo "G. Poleni"

Sfera armillare al museo di fisica “G. Poleni”, Università di Padova

Le sfere armillari da dimostrazione acquistarono poi una straordinaria popolarità con la fine del Quattrocento, fino a diventare addirittura il simbolo dell’astronomia e della scienza stessa. Il re Manoel I del Portogallo, incoronato nel 1492 e sotto il cui regno furono condotte le prime grandi imprese nautiche portoghesi, scelse come suo stemma proprio una sfera armillare. A partire dalla metà del Cinquecento questi strumenti, impreziositi da intagli sempre più raffinati, vennero così a costituire oggetti molto ricercati dai nobili collezionisti, che avevano fino ad allora raccolto soprattutto astrolabi e occasionalmente globi e orologi solari. Con la diffusione del sistema copernicano in cui il Sole, e non più la Terra, era in posizione centrale, furono poi costruite coppie di sfere armillari che mostravano uno accanto all’altro il nuovo ed il vecchio modello dell’universo. Tali coppie continuarono ad essere proposte fino alla fine del XVIII secolo, quando vennero poi sostituite dai planetari, frutto dell’evoluzione delle sfere armillari stesse.

Nella sfera armillare in esposizione la Terra, in posizione centrale, è rappresentata da una piccola sfera di legno probabilmente dorata in origine. La base dello strumento, l’orizzonte e il meridiano di sostegno non sono originali – si tratta visibilmente di parti costruite e fissate alla sfera centrale nel XIX secolo – ma la sfera armillare stessa è cinquecentesca e appare caratterizzata da una struttura molto particolare, composta da tre sfere concentriche incastonate una dentro l’altra. Ogni sfera è costituita da diversi anelli e ha una propria eclittica, divisa in sezioni corrispondenti ai dodici segni dello Zodiaco. In effetti, a partire dalla fine del XV secolo, cominciarono ad essere costruite sfere armillari costituite da diverse sfere concentriche, destinate a mostrare sia la precessione sia la cosidetta trepidazione degli equinozi.

Nel II secolo a.C., l’astronomo greco Ipparco aveva infatti osservato che il sole sembrava impiegare più tempo per tornare in un dato punto dello zodiaco che per arrivare fino all’equinozio da una primavera all’altra, e aveva notato inoltre un lento spostamento delle stelle parallelamente all’eclittica in senso contrario al moto diurno. I punti equinoziali di primavera ed autunno sembravano spostarsi lungo lo zodiaco, da cui il nome di precessione degli equinozi dato a questo fenomeno. Durante il Medioevo però, a causa di nuovi dati tratti dall’osservazione, la teoria di Ipparco sembrò essere insufficiente. L’astronomo greco aveva infatti calcolato che gli equinozi si spostavano con una velocità di 1° ogni 100 anni, mentre gli scienziati arabi trovavano un avanzamento molto più rapido, dell’ordine 1° ogni 66 anni. Gli studiosi non conclusero però che il precedente valore fosse errato, bensì che la velocità di precessione fosse cambiata dai tempi di Ipparco. Tale velocità venne quindi considerata una funzione del tempo che doveva essere determinata sulla base delle osservazioni. Inoltre, mentre Tolomeo dava un valore di 23° 51’ per l’obliquità dell’eclittica rispetto all’equatore, le misure degli astronomi arabi davano valori decisamente inferiori. L’obliquità dell’eclittica appariva quindi anch’essa variabile e si tentò di mettere a punto delle teorie che tenessero conto di tutte le misure, sia cioè delle osservazioni storiche che dei rilevamenti più recenti. Le prime proposte in questo senso vennero da alcuni scienziati arabi, tra cui in particolare da Ibn al-Zarquellu, detto anche Azarquiel, nel XI secolo. Molto famosa fu in seguito la teoria presentata nelle famose Tavole Alfonsine, ricchissimo insieme di libri compilato a Toledo fra il 1252 ed il 1272 da un gruppo di astronomi sotto la protezione del re Alfonso X di Castiglia. La teoria cosiddetta alfonsina della precessione considerava che il moto degli equinozi fosse costituito dalla composizione di due movimenti, una precessione a velocità costante simile a quella proposta da Ipparco, e un moto periodico oscillatorio, detto di accessus e di recessus, e chiamato anche trepidazione. Sembra che per molto tempo tale teoria fosse impiegata unicamente come metodo di calcolo ma, con la seconda metà del Quattrocento alcuni astronomi, fra cui Regiomontanus e Peuerbach, proposero di interpretarla meccanicamente e cominciarono allora ad essere costruiti, a partire dalla fine del XV secolo, i primi modelli di sfere armillari dotati di un meccanismo per la dimostrazione del moto di acessus e recessus degli equinozi.

Nella sfera armillare di Padova, la sfera più esterna rappresenta il cosiddetto Primum Mobile del sistema tolemaico: attorno alla terra, immobile nel centro dell’universo, ruotavano tutti gli altri corpi celesti, disposti in varie sfere concentriche e trascinati in una rotazione di 24 ore dal cerchio più esterno, il Primum Mobile per l’appunto. Questa sfera esterna è composta da otto anelli, di cui due fissati perpendicolarmente uno all’altro rappresentano i coluri. Altri cinque anelli paralleli, fissati perpendicolarmente ai coluri, rappresentano i circoli polari, i tropici e l’equatore. Si pensava che tutti i corpi celesti a parte la terra partecipassero al moto del Primum Mobile. Sull’eclittica di questa sfera sono incisi i simboli, i nomi in latino e delle rappresentazioni figurate delle varie costellazioni dello zodiaco.

La sfera concentrica successiva, che reca l’iscrizione “NONA”, permetteva di visualizzare la precessione degli equinozi. E’ costituita da tre anelli perpendicolari uno all’altro di cui uno rappresenta l’eclittica. Questa sfera è fissata a quella esterna in modo tale che il suo asse di rotazione coincida con l’asse dell’eclittica della sfera esterna. Così, quando la sfera viene fatta girare a velocità costante, viene simulato l’apparente spostamento delle stelle e dell’eclittica che corrisponde alla precessione uniforme degli equinozi.

Infine, all’interno di questa nona sfera, è incastonata un’altra sfera, su cui è incisa l’indicazione “OTAVA”, destinata a dimostrare la teoria della trepidazione degli equinozi. Mediante due rotelle, si può infatti fare ruotare gli equinozi dell’ottava sfera intorno agli equinozi della nona sfera, il che coincide con un’oscillazione angolare dell’asse di questa ottava sfera. Con i suoi vari sistemi concentrici, la sfera armillare di Padova permette quindi di mostrare, oltre alla rotazione diurna della sfera celeste, anche il moto composto degli equinozi, risultante dalla composizione di due movimenti, una precessione a velocità costante realizzata dalla nona sfera e un moto oscillatorio di trepidazione legato all’ottava sfera.

Precisiamo che i coluri della sfera più esterna recano incisi i dati sull’obliquità dell’eclittica, ossia “GRAD’ 23 MINUTA 51”, il che corrisponde all’obliquità misurata da Tolomeo. Come abbiamo detto, la teoria della trepidazione, simulata con questa sfera, teneva infatti conto delle osservazioni storiche tentando di conciliarle, attraverso il moto oscillatorio, con i rilevamenti più recenti.

I modelli di trepidazione degli equinozi furono poi definitivamente abbandonati alla fine del Cinquecento, in particolare con i lavori di Tycho Brahe, il quale basò l’astronomia su una serie di osservazioni completamente nuove e molto precise, che portarono a diffidare dell’affidabilità delle misure dei secoli precedenti. Questi tentativi di rappresentazione meccanica della trepidazione ebbero però vita assai breve poiché la teoria stessa fu abbandonata con i primi anni del Seicento, e le sfere armillari di questo tipo sono oggigiorno estremamente rare. La letteratura più recente riporta infatti l’esistenza certa di sei esemplari di tali strumenti in tutto il mondo, tra cui non è segnalata la sfera armillare dell’Università di Padova, poiché rimasta finora sconosciuta anche agli specialisti del settore.

Sofia Talas, Fanny Marcon