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Il Sessantotto all’Università di Padova

L’Università di Padova vive da protagonista il Sessantotto e gli anni della protesta fin dalle prime ore: il suo corpo studentesco, enormemente accresciuto (dai circa 10.000 iscritti del 1960 agli oltre 30.000 dell’anno accademico 1968-69), è in prima linea. E a Palazzo Bo le contestazioni mettono fine ai sei mandati da rettore di Guido Ferro, in carica dal 1949 al 1968.

Inizialmente le istituzioni universitarie reagiscono al mutamento delle condizioni con una politica di lievi concessioni, aumentando ad esempio i corsi di laurea o dando una rappresentanza più incisiva agli studenti, ma senza toccare nella sostanza la gestione e gli equilibri interni dell’università.

Le organizzazioni studentesche alzano sempre più il livello delle richieste, chiedendo ad esempio la cogestione “democratica” degli spazi e dei programmi, l’abolizione degli esami e il voto politico. Così alla fine del ’67 iniziano le occupazioni delle facoltà: in gioco c’è sempre più anche un conflitto generazionale che contrappone studenti a docenti, con crescenti venature politiche e sociali e risvolti estremistici di opposte tendenze.

Padova, “città di vipere” secondo lo storico dell’Università di Padova Angelo Ventura, si sarebbe presto dimostrata un laboratorio politico particolarmente inquietante e violento: dalle bombe di matrice nera, persino nello studio del nuovo rettore Enrico Opocher, al primo omicidio delle Brigate Rosse, commesso alla sede del MSI in via Zabarella (1974).

Un ruolo sicuramente da protagonista in quegli anni è quello assunto da studenti e professori della facoltà di Scienze politiche, un microcosmo che riflette un certo tipo di evoluzione comune in quegli anni a diversi segmenti della società.

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